Saluto di Socrate ad Ippia: come mai gli antichi sapienti non si sono dedicati a quella vita politica, cui tanto attivamente si dedica Ippia? (I 281a-d). Esaltazione ironica della sapienza degli attuali solisti, e in particolare di Gorgia e di Prodico, rispetto a quella degli antichi: è per questo che essi si fanno pagare (II 281d-282d). Autoesaltazione di Ippia ironicamente assecondato, ancora una volta, da Socrate (III 282d-283b). Come mai a Sparta Ippia ha guadagnato meno che nelle altre città? (IV 283b-284a). Inconsistenza della spiegazione data da Ippia (V 284a-e). Se Ippia avesse ragione bisognerebbe dire che i Lacedemoni, invece che essere più ossequienti alle leggi, violano le leggi. Passione dei Lacedemoni per le genealogie (VI 284c-285e). Esaltazione della mnemotecnica di Ippia (VII 285e-286c). Posizione del problema: Socrate chiede ad Ippia di definire che cosa è il bello, per poter rispondere così ad un suo anonimo interlocutore. Socrate si riserva di fare obbiezioni (VIII 286c-287b). Non si tratta di trovare una cosa bella, ma che cosa è "il bello". Prima risposta di Ippia: una bella ragazza è una cosa bella (IX 287b-288b). Insoddisfazione dell'anonimo interlocutore (uomo rozzo e volgare, amante solo del vero): come negare che anche una bella cavalla, una bella lira o una bella pentola sono cose belle? (X 298b-299a). D'altra parte una bella ragazza sarà brutta rispetto a una dea. Ciò che si chiedeva non è una cosa bella e brutta allo stesso tempo, ma quel che è bello in sé, per la cui presenza tutte le cose sono belle. Seconda risposta di Ippia: il bello è l'oro (XI 289a-290a). Critica di Socrate: non sempre l'oro rende bella una cosa; talvolta l'avorio o la pietra o il legno sono più convenienti e quindi tali da rendere belle le cose (XII 290a-d). Insofferenza di Ippia per l'interrogare socratico: il sofista promette di dare una definizione che non potrà mai essere smentita. Terza definizione: bello per l'uomo è vivere ricco, sano, onorato fino alla vecchiaia ed essere splendidamente sepolto dai suoi figli dopo aver splendidamente sepolto i suoi genitori (XIII 290e-291e). schermaglie tra Socrate e Ippia: l'anonimo interlocutore, questa volta, non si limiterà a confutare Socrate, ma lo picchierà anche (XIV 291e-292c). La definizione di Ippia non è la risposta a quella domanda che chiedeva che cosa è il bello in sé, bello per tutti, bello nel passato, nel presente e nel futuro: per Achille e per gli altri discendenti dagli dèi era bello esser sepolti dopo aver seppellito i genitori? (XV 292c-293a). Ancora una volta quello che era stato definito come bello appare, in certi casi, come brutto (XVI 293a-c). Socrate immagina che sia l'anonimo interlocutore a suggerirgli una definizione, che viene così proposta ad Ippia: il bello come conveniente. Ma il conveniente fa apparire o fa essere belle le cose? (XVII 293c-294c). Il conveniente fa apparire, non essere belle le cose: non può essere quindi la definizione cercata (XVIII 294c-295a). Nuova definizione: il bello come utile (XIX 295a-e). Ciò che è utile a fare il male non può essere bello. Anche questa definizione deve essere abbandonata (XX 295e-296d). Ulteriore definizione: il bello come vantaggioso. Tuttavia se si dice questo, si dice che il bello è causa del bene; e poiché la causa è diversa da ciò di cui è causa, il bello sarà diverso dal bene: il che è insostenibile (XXI 296d-297d). Ultima definizione: il bello è ciò che è piacevole per mezzo dell'udito e della vista. Anche le belle occupazioni e le belle leggi sono belle per questa ragione? L'anonimo interlocutore non è altri che Socrate stesso (XXII 297d-298c). Malgrado questa difficoltà, la definizione viene mantenuta. Distinzione tra ciò che è piacevole mediante la vista e l'udito e tutte le altre specie di piacevole (XXIII 298c-299b). Ciò che è piacevole solo mediante la vista o solo secondo l'udito non risponde alla definizione data. Ma come è possibile che il bello consista in qualcosa che è presente nella coppia ma non nei singoli componenti la coppia? (XXIV 299b-300c). Questo in qualche caso è possibile: la coppia è due e pari, i suoi componenti sono uno e dispari. Battute polemiche tra Ippia e Socrate circa il modo di discutere (XXV 300c-301c). Ancora su questo punto (XXVI 301c-302b). I piaceri della vista e dell'udito sono belli per ciò che è presente nel loro insieme, ma non per ciò che è in essi, singolarmente presi (XXVII 302b-303a). Ma il bello è di quelle cose che, se appartengono a una coppia, appartengono anche ai singoli componenti della coppia. Anche quest'ultima definizione non regge (XXVIII 303a-d). Conclusione negativa. Aspre critiche di Ippia sul modo di dialogare e di ricercare di Socrate (XXIX 303d-304e).
[281a] I. SOCRATE. Oh! bello e sapiente Ippia! quanto tempo è che non sei venuto da noi, ad Atene! IPPIA. Non ho tempo, Socrate! perché quando Elide ha bisogno di trattare con qualche altro stato, sempre si rivolge a me, prima che ad altri cittadini, e mi nomina suo ambasciatore, certa che io sia il più abile a giudicare e a riferire i discorsi che si svolgono nelle altre città. Spesso, dunque, fui am-[b] basciatore in vari stati, ma soprattutto a Sparta e sempre per moltissimi affari della più grande importanza. Ecco perché, come tu mi chiedi, non vengo spesso in questi luoghi. SOCR. Questo, Ippia, significa essere uomo davvero sapiente e perfetto! Certo, perché tu da privato, facendoti dare dai giovani molto denaro, hai la capacità di procurare loro vantaggi ben più preziosi delle somme che ricevi, e, da uomo pubblico, di giovare alla tua città, come [c] deve fare chi non vuole rimanere oscuro, ma farsi un grande, pubblico nome. Ma, Ippia, per quale mai ragione quegli antichi, i cui nomi sono divenuti famosi per sapienza, Pittaco, Biante, e da Talete di Mileto via via fino ad Anassagora, tutti, o quasi, non sembra si siano occupati della vita politica? IPP. E per quale altra ragione, Socrate, pensi, se non perché erano incapaci e inadeguati a dominare [d] con la propria intelligenza ambedue le cose, gli affari pubblici e le faccende private?
II. SOCR. Sì, per Zeus, capisco! Come le altre arti hanno fatto un gran progresso e di fronte agli artefici di oggi gli antichi valgono quasi niente, così dobbiamo dire che anche la vostra arte, di voi sofisti, è progredita e quei saggi antichi nei vostri confronti non valgono che poco o nulla? IPP. Proprio così! SOCR. Ma, allora, Ippia, se Biante rivivesse, di fronte a voi farebbe ridere, come anche di Dedalo [282a] dicono gli statuarii che, se facesse oggi quelle opere per le quali divenne celebre, verrebbe deriso. IPP. E’ così, Socrate, proprio come tu dici! Eppure io sono solito encomiare pubblicamente gli antichi e i nostri predecessori più dei contemporanei, in parte per evitare l’invidia dei vivi, in parte perché temo l’ira dei morti. SOCR. Secondo [b] me, Ippia, tu parli e ragioni proprio bene! Sono anzi pronto a testimoniare che dici il vero e che la vostra arte segna un notevole progresso a proposito della capacità di trattare a un tempo i pubblici ed i privati affari. Non a caso il celebre Gorgia, sofista di Leontini, venne qui dalla sua città con pubblico incarico di ambasciatore perché ritenuto, tra i Leontini, il più adatto a trattare le questioni della comunità; e se da un lato si fece una gran fama parlando dinanzi al popolo, dall’altro lato, in privato, tenendo conferenze e intime discussioni con i giovani, guadagnò un monte di quattrini e molti ne sottrasse a questa città. [c] Non solo, ma se vuoi, Prodico, nostro compagno di studi, è più volte andato fuori del suo paese con incarichi pubblici, e, infine, ultimamente, venuto qui da Ceo, a nome della sua città, parlando nella Bulé ha riportato un gran successo, mentre in privato tenendo conferenze e intime discussioni con i giovani ha guadagnato favolose ricchezze. Quei tali antichi, invece! nessuno di loro pensò bene di farsi pagare in denaro o di dar prova della propria [d] sapienza dinanzi a svariato pubblico, tanto erano semplici ed era loro nascosto il valore del denaro! Sia Gorgia che Prodico, invece, ciascuno ha ricavato con il proprio sapere più quattrini di ogni altro tecnico da qualsivoglia arte: e, prima di loro, Protagora.
III. IPP. E non sai il meglio, Socrate, a tale proposito. Se tu sapessi quanto denaro ho guadagnato io, resteresti stupito. Accantonando il resto, ti basti che andato una volta [e] in Sicilia, mentre vi era Protagora, già famoso e più anziano di me, io, molto più giovane, in poco tempo guadagnai oltre centocinquanta mine, e da una sola piccolissima zona, Inico, più di venti. Tornato a casa con questa somma, la detti a mio padre, e lui e i miei concittadini rimasero meravigliati e profondamente colpiti. Eh sì, credo quasi di aver guadagnato più denari io che altri due sofisti, quali tu voglia, messi insieme! SOCR. Questa che dici, Ippia, è sì una bella e grande prova della tua sapienza e di [283a] quella dei nostri contemporanei, e di quanto voi siate diversi dagli uomini del tempo antico. Secondo le tue parole essi erano davvero ignoranti! Di Anassagora, ad esempio, si narra che gli accadesse esattamente il contrario di quel che accade a voi: avendo ereditato un grosso patrimonio, non se ne curò affatto e lo sperperò totalmente, tanto senza cervello era il suo sapere. Ma anche di altri antichi si narrano le stesse cose. Ecco perché mi sembra che la tua risulti una bella prova della sapienza dei nostri contemporanei rispetto alla sapienza dei predecessori, tanto [b] più che oramai è opinione comune che il sapiente debba soprattutto esser sapiente a proprio favore, per cui può essere definito così: sapiente è chi guadagna quanti più quattrini è possibile. Ma tanto basti di questo! Dimmi piuttosto: da quale, tra le città che hai visitato, hai ricavato il maggior guadagno? Evidentemente da Sparta, dove sei andato il maggior numero di volte?
IV. IPP. No, per Zeus, Socrate! SOCR. Ma che dici? A Sparta meno che altrove? IPP. Nulla, anzi! assoluta-[c] mente nulla. SOCR. Incredibile, portentoso, Ippia! Dimmi: il tuo sapere non è tale da rendere migliori nella virtù chi ne profitta e l’apprende? IPP. Moltissimo, Socrate! SOCR. Ma tu, forse, sei stato capace di rendere migliori i figli degli Iniceni e non quelli degli Spartani? IPP. Nient’affatto. SOCR. Ma, allora, i Sicelioti desiderano divenire migliori e gli Spartani no? IPP. Ma no, Socrate! [d] ancor di più lo desiderano gli Spartani. SOCR. Che, forse, non abbiano frequentato le tue lezioni per mancanza di mezzi? IPP. No certo! ne hanno più che a sufficienza! SOCR. Ma perché, allora, se desiderano divenir migliori e hanno mezzi e tu hai la capacità di esser loro utilissimo, non ti hanno rimandato pieno di quattrini? Che gli Spartani sappiano educare i propri ragazzi meglio di te? Dovremmo dire di sì! e tu ne convieni? IPP. Nient’affatto! [e] SOCR. Forse, a Sparta, non hai saputo persuadere i giovani che se ti avessero frequentato si sarebbero maggiormente avvicinati alla virtù che non frequentando la propria gente? O non sei stato capace di persuadere i padri loro che, per poco che si preoccupassero della sorte dei figli, conveniva affidare a te la cura dei giovani piuttosto che prenderne cura essi stessi? Eh sì, perché non è da pensare che non abbiano voluto che i propri figliuoli divenissero quanto più è possibile migliori. IPP. Non credo affatto che non abbiano voluto. SOCR. Eppure Sparta ha buone leggi! IPP. Come no? SOCR. E nelle [284a] città che hanno buone leggi altamente onorata è la virtù. IPP. Senza dubbio. SOCR. E proprio tu, più di tutti, sai insegnarla agli altri. IPP. Eccome, Socrate!
V. SOCR. Chi meglio sapesse dare lezioni di equitazione, non sarebbe altamente apprezzato in Tessaglia, e là dove ci si occupi di cavalli, più che in altro paese della Grecia, raccogliendo un’infinità di quattrini? IPP. Naturale! SOCR. E chi sia capace d’impartire i più preziosi insegna-[b] menti per avviare alla virtù, non dovrebbe essere altamente apprezzato in particolar modo a Sparta, e raccogliervi, se vuole, i maggiori guadagni, sì come in ogni altra città greca che abbia buone leggi? O pensi, compagno, che abbia maggior successo in Sicilia e a Inico? Questo, Ippia, dobbiamo credere? Se lo vuoi tu, crediamoci! IPP. Solo che, a Sparta, Socrate, non rientra nel patrio costume alterare le leggi, né dare ai figli un’educazione che si discosti dalle loro usanze. SOCR. Ma che dici! per gli [c] Spartani non è conforme all’uso patrio agire rettamente, ma errare? IPP. Non lo dire neppure, Socrate! SOCR: Ma non agirebbero rettamente se educassero i giovani meglio, non peggio? IPP. Giusto! so o che la legislazione non permette loro di dare ai figli un’educazione straniera. D’altra parte, sappi bene che, se altri mai avesse guadagnato a Sparta per educare, io avrei guadagnato moltissimo, tanto è vero che mi ascoltano con gran piacere e mi lodano; ma, ripeto, è contro la legge. SOCR. Ma, [d] Ippia, la legge è, secondo te, a danno o a vantaggio dello stato? IPP. La legge, credo, viene istituita a vantaggio dello stato; talvolta, invece, se male istituita, è di danno. SOCR. Già, ma chi istituisce la legge non lo fa in vista del maggior bene dello stato? E senza legge è impossibile avere uno stato ben governato. IPP. E’ vero. SOCR. Qualora, dunque, chi si assume il compito di emanare le leggi non imbocchi la via del bene, erra, ad un tempo, sia nel costituire la legislazione, sia nel determinare [e] le singole leggi. Non ti sembra? IPP. Sul filo del ragionamento non può essere altrimenti, Socrate; solo che, in genere, non si ragiona così. SOCR. Ma, Ippia, da parte di chi sa, o da parte di chi non sa? IPP. Da parte della maggioranza. SOCR. Ma è proprio essa a sapere la verità, la maggioranza? IPP. Evidentemente no! SOCR. Eppure, chi sa pensa che sia più legittimo ciò che veramente è utile a tutti che non ciò che è dannoso. Non ne convieni? IPP. Sì, ne convengo, entro i termini della verità. SOCR. Ma, allora, le cose stanno come pensa chi sa? IPP. Certo!
VI. SOCR. Per gli Spartani, allora, conviene di più, come [285a] tu affermi, essere educati secondo le tue direttive, pur trattandosi di educazione straniera, che secondo il costume del loro paese. IPP. E dico la verità! SOCR. Tanto più in quanto le cose più utili sono anche più legali: anche questo sostieni, Ippia? IPP. Sì, l’ho sostenuto. SOCR. Seguendo il tuo ragionamento, dunque, per i figli degli Spartani è più legittimo essere educati da Ippia e illegittimo esserlo dai propri genitori, se davvero trarranno da te un vantaggio maggiore. IPP. Certo che ne ricaveranno un [b] vantaggio maggiore, Socrate. SOCR. Gli Spartani, dunque, violano la legge, dal momento che non ti coprono d’oro e non ti affidano i propri figliuoli. IPP. Sono d’accordo! tanto più che, mi sembra, tu parli nel mio interesse, per cui non posso, davvero, contraddirti. SOCR. Ma guarda un po’, compagno mio, proprio gli Spartani troviamo che violano la legge in un punto di capitale importanza, essi, in apparenza, i più ossequienti alla legalità!... Ma, insomma, Ippia, in nome degli dèi, per quali argomenti ti lodano gli Spartani, e quali gli argomenti ch’essi provano piacere ad ascoltare? Senza dubbio quelli che tu conosci benissimo, che hanno per oggetto gli astri [c] e i fenomeni celesti? IPP. No davvero! Non ne vogliono neppure sentir parlare. SOCR. Ascoltano allora con piacere argomenti di geometria? IPP. Nemmeno, ché molti di loro, per così dire, non sanno neppure far di conto. SOCR. Saranno allora ben lungi dal lasciarti discorrere di calcoli! IPP. E come lontani, per Zeus! SOCR Senza dubbio, allora, di quello che tu sai analizzare più [d] esattamente di ogni altro, le tue analisi cioè sul valore delle lettere, delle sillabe, dei ritmi, delle armonie? IPP. Di quali armonie, di quali lettere mai, mio buon amico? SOCR. Per quale argomento, allora, ti ascoltano con piacere e ti lodano? Dimmelo tu, ché da me non riesco a trovarlo. IPP. Parlo delle genealogie degli eroi e degli uomini, Socrate, e delle fondazioni, di come anticamente si fondarono le città; in una parola, ascoltano con grande piacere tutta la storia antica, onde per contentarli sono stato costretto a studiare e ad approfondire tutti questi [e] argomenti. SOCR. Per Zeus, Ippia! bella fortuna la tua che gli Spartani non amino sentire numerare la serie dei nostri arconti da Solone in poi, altrimenti avresti dovuto fare una bella fatica a impararli! IPP. E perché, Socrate? Basta ch’io ascolti una sola volta cinquanta nomi per rammentarmeli.
VII. SOCR. E’ vero, non ricordavo che tu possiedi l’arte mnemonica; comprendo dunque che abbiano ragione gli [286a] Spartani di essere lieti di ascoltarti poiché sai tante cose, e che facciano con te come, con le vecchierelle, i bambini, che si fanno raccontare favole per divertirsi. IPP. In verità, per Zeus, Socrate, anche di recente, ho avuto a Sparta un gran successo disquisendo sulle belle occupazioni che i giovani debbono avere. Su tale argomento, anzi, ho composto un discorso bellissimo, non solo per i molti suoi pregi, ma anche per la scelta dei vocaboli. Occasione e principio del discorso è, più o meno, il seguente: dopo la presa di Troia dico che Neoptolemo [b] chiede a Nestore quali siano le belle occupazioni mediante le quali un giovane può salire in gran fama. Prende quindi la parola Nestore, che gli presenta molte e bellissime occupazioni possibili, conformi alle leggi. Tale discorso esposi a Sparta e, domani l’altro, ripeterò qui, nel didascalco di Fidostrato, ove terrò anche molte altre mie lezioni degne d’essere ascoltate, su invito di Eudico di Apemanto. Cerca d’esser presente anche tu e di condurvi altri, ma tali [c] che siano degni di saper giudicare i discorsi che ascoltano.
VIII. SOCR. Ma sì, Ippia, se il dio lo vuole! Ora, invece, rispondi in forma breve a una questione, che mi hai fatto ricordare al punto giusto. Recentemente, ottimo amico mio, mentre, discorrendo, criticavo alcune cose in quanto brutte ai)sxra/ [aischrà], e altre, invece, lodavo come belle kala/ [kalà], un tale mi ha messo in grave dubbio, chiedendomi, addirittura con insolenza: "Ma come fai, Socrate, a sapere [d] quali cose sono belle e quali brutte? in realtà, mi sapresti dire "cosa è" ti/ e)sti [tì esti] il bello?". Ed - io, per la mia inettitudine, rimasi tutto confuso e non seppi rispondergli a modo; e così, venendo via da quella conversazione, mi arrabbiavo con me stesso, mi rimproveravo e minacciavo che non appena mi fossi incontrato con uno di voi sapienti, vi avrei ascoltato sull’argomento, mi sarei addottrinato, preparato come si deve, e, tornato da quel tale, che mi aveva interrogato, avrei ripreso il combattimento. Ecco perché ora, dico, sei giunto proprio al momento giusto. Insegnami, dunque, in maniera adeguata, cosa sia il bello in quanto bello, e cerca di rispondermi [e] parlando in termini quanto più è possibile esatti, sì che io non venga confutato una seconda volta e sia di nuovo oggetto di risate. Tu, senza dubbio, lo sai in maniera lampante, e questa non è, forse, che una minima parte tra le moltissime discipline che conosci. IPP. Sì, per Zeus, Socrate, una minima parte, e, per così dire, di nessun significato. SOCR. Imparerò, allora, facilmente, e nessuno potrà più confutarmi. IPP. Nessuno, assolutamente! Proprio da nulla e assai limitata sarebbe se no la mia pro-[287a] fessione. SOCR. Per Era, Ippia, che bella cosa se riusciremo a vincere quel tale! Ma non vorrei metterti in difficoltà se, imitandolo, mentre tu mi rispondi, ti porrò delle obbiezioni si che tu possa istruirmi nella maniera migliore possibile: io sono piuttosto esperto nel fare obbiezioni. Se dunque per te è lo stesso ti proporrò una serie di obbiezioni per imparare in modo davvero fondato. IPP. Ma sì, obbietta, ché, come or ora dicevo, la domanda non è gran cosa, ed io sono in grado d’insegnarti a rispondere [b] a domande ben più complesse, sì da sfidare chiunque ti confuti.
IX. SOCR. Come parli bene! Sù via! poiché anche tu lo chiedi, cercherò d’interrogarti facendo finta, per quanto mi è possibile, d’essere quel tale. Così, se tu dinanzi a lui recitassi quel racconto, di cui hai parlato, sulle belle occupazioni, egli, avendoti ascoltato, ti troncherebbe quasi in bocca la parola, interrogandoti innanzi tutto sulla questione del bello, poiché ha questa abitudine, dicendo: [c] "Forestiero di Elide, non è forse vero che i giusti sono giusti per la giustizia?". Rispondi, Ippia, come se a interrogarti fosse quel tale. IPP. Rispondo, appunto, che i giusti sono giusti per la giustizia. SOCR. "La giustizia è, dunque, qualcosa di reale?". IPP. Senza dubbio. SOCR. "Anche i sapienti, allora, sono sapienti per la sapienza, e tutto ciò che è buono è buono per il bene?". IPP. Come no? SOCR. "Per cose, dunque, che sono realmente, non per cose che non sono?". IPP. Senza dubbio, per cose che sono. SOCR. "Così, anche tutte le cose [d] belle non sono forse belle per il bello?". IPP. Sì, per il bello. SOCR. "In quanto il bello sia reale?". IPP. Reale, sì: come potrebbe essere altrimenti? SOCR. "E allora dimmi, forestiero - preciserà - cosa è questo bello?". IPP. Ma chi ponga una domanda simile, Socrate, cos’altro vuole mai sapere se non "cosa sia bello"? SOCR. No, non mi sembra, ma "che cosa sia il bello", Ippia. IPP. E che differenza c’è tra le due espressioni? SOCR. Ti sembra che non vi sia alcuna differenza? IPP. Nessuna. SOCR. Evidentemente tu lo sai meglio di me. Ad ogni modo, mio caro, rifletti un po’: quel tale ti chiede [e] non cosa è ti/ e)sti [tì esti] bello, ma "che cosa è o(/ti e)sti [òti estì] il bello". IPP. Capisco, mio caro, e gli risponderò che cosa è il bello, né certo sarò più confutato. Ecco, Socrate, il bello, sappilo bene, se debbo dire la verità, è una bella fanciulla. SOCR. Bella risposta, Ippia, e degna d’essere [288a] famosa, corpo di un cane! Se io, dunque, risponderò in tale modo, avrò risposto, e correttamente, alla domanda, né certo sarò più confutato? IPP. E come potresti mai, Socrate, venir confutato, se è questa l’opinione di tutti e se tutti, ascoltandola, testimonieranno che la tua risposta è corretta? SOCR. E va bene, lo sia! Ad ogni modo, Ippia, lasciami riprendere per conto mio quello che hai detto. Quel tale mi porrà all’incirca la seguente domanda: "Coraggio, Socrate, rispondimi: tutte quelle cose che dici belle, se il bello in quanto bello è qualcosa, appunto per questo sono belle, per il bello? ; e io allora risponderò che se una bella fanciulla ha qualità belle, è bella, appunto, per ciò che sono belle le cose belle? IPP. Pensi dav-[b] vero che quel tale possa ancora provarsi a confutarti che quello che dici non è bello, oppure, se ci prova, non cascherà nel ridicolo? SOCR. Che ci provi, uomo degno di fare stupire, lo so bene; ma se per averci provato cascherà nel ridicolo, lo dimostrerà! Voglio dirti, comunque, quello ch’egli dirà. IPP. Parla.
X. SOCR. "Quanto sei caro, Socrate!, esclamerà. Una bella cavalla non è forse cosa bella, se perfino il dio ne ha tessuto le lodi nel suo oracolo?" Che risponderemo, Ippia? Non dovremo dire che anche una cavalla è cosa [c] bella, se è bella? Come avremmo l’ardire di affermare che il bello non è bello? IPP. Vero, Socrate! poiché il dio disse anche cosa giusta: nel nostro paese nascono, infatti, bellissime cavalle. SOCR. "Bene, aggiungerà quel tale, ma anche una bella lira, non è cosa bella?". Diremo di sì, Ippia? IPP. Sì. SOCR. Poi, ne sono quasi sicuro, a riprova del suo modo di fare, quel tale dirà: "Ottimo Socrate, e una bella pentola? non è cosa bella?". IPP. Ma che tipo d’uomo è costui, Socrate? [d] Com’è incolto, se in così alto argomento ardisce usare parole sì basse! SOCR. Tale è l’uomo, Ippia! nient’affatto fine, anzi volgare, di nulla preoccupato se non del vero. Eppure bisogna rispondergli, e sùbito dirò quello che penso. Se la pentola è opera di un buon vasaio, è levigata, rotonda, ben cotta, come sono alcune di quelle belle pentole a due anse, capaci di sei choe, belle in tutte le loro parti, se si riferisse a una simile pentola, dovremmo convenire che è bella. Sì, perché come potremmo affermare [e] che quel che è bello non è bello? IPP. Impossibile, Socrate. SOCR. "Dunque, dirà, anche una bella pentola è cosa bella? Rispondimi". IPP. Ma, Socrate, penso che debba essere così! Anche un tale utensile sarà bello se di bella fattura, solo che nel loro complesso questi tipi di oggetti non sono degni d’esser giudicati come cosa bella a confronto di una cavalla, di una fanciulla, di tutte le altre [289a] cose veramente belle. SOCR. Bene! Ora capisco, Ippia! A quel tale, se porrà quella domanda, bisogna rispondere: "Uomo, tu ignori quanto sia giusto il detto di Eraclito: ‘La più bella delle scimmie è brutta a confronto della specie umana; e così, la più bella delle pentole è brutta a confronto del genere fanciulle, come dice il sapiente Ippia". Non è così, Ippia? IPP. Perfettamente, Socrate; hai risposto come dovevi.
XI. SOCR. Ma stammi a sentire, poiché so bene cosa replicherà quel tale: "E che, Socrate? Al genere fanciulle, [b] messo a confronto con il genere delle dee, non accadrà lo stesso che al genere pentole messo a confronto con il genere fanciulle? La più bella delle fanciulle non apparirà brutta? Anche Eraclito, da te citato non dice la stessa cosa: "Il più sapiente degli uomini a paragone di dio sembrerà una scimmia, per sapienza, per bellezza e sotto ogni altro aspetto?". Saremo d’accordo, Ippia, nel sostenere che la fanciulla più bella è brutta a confronto con il genere delle dee? IPP. E chi potrebbe negarlo, Socrate? SOCR. Ma se gli accorderemo questo, si met-[c] terà a ridere e dirà: Non ti ricordi, Socrate, quale era la mia domanda?" ; "Sì, risponderò: mi domandavi che cosa mai è il bello in quanto bello". "Solo che, obbietterà, interrogato poi sul bello, càpita che tu dica ‘bello’ qualcosa che, su tua stessa dichiarazione, tanto è bello quanto è brutto?". E io dovrò rispondere: "Sembra!"; o cosa altro mai, amico mio, mi consigli di rispondere? IPP. Questo, appunto! perché quel tale dice il vero sostenendo che il genere umano a paragone degli dèi non è bello. SOCR. "Ma se io, aggiungerà, fin dal principio ti [d] avessi chiesto che cosa è bello e che cosa è brutto, tu, rispondendomi come mi hai risposto, non mi avresti risposto a dovere. Ti sembra ancora che il bello in quanto bello, ciò per cui tutte le altre cose assumono ornamento e appaiono belle, quando si accompagni loro tale aspetto [ ei)=doj eìdos], possa essere una fanciulla, una cavalla, una lira?". IPP. Ma, Socrate, se è questo che cerca, è facilissimo rispondergli che cosa è il bello, per il quale tutte le altre cose assumono ornamento ed appaiono belle qualora esso [e] si accompagni loro. E’ di un’ingenuità senza pari quel tale! e non capisce proprio nulla di cose belle. Oh sì! se gli risponderai che questo tale bello di cui chiede, altro non è che l’oro, rimarrà confuso e non cercherà più di confutarti. Tutti sappiamo che quando si aggiunga oro, anche un oggetto che prima ci sembrava brutto, con tale ornamento, apparirà bello. SOCR. Non conosci l’uomo, Ippia, non sai quanto è ostinato e come nulla accetti con facilità. IPP. E con questo, Socrate? Quel ch’è stato detto correttamente deve accettarlo per forza, o se non [290a] l’accetta si coprirà di ridicolo.
XII. SOCR. Eh no! ottimo amico mio, non solo non accetterà una simile risposta, ma, prendendomi mordacemente in giro, dirà: "O uomo pieno di fumo, credi forse che Fidia sia stato un cattivo artefice?". Ed io, certamente, risponderò: niente affatto! IPP. E la tua risposta sarà giusta, Socrate. SOCR. Giusta sì, ma appunto per questo, quando gli avrà concesso che Fidia è un buon [b] artefice, quel tale dirà: "Pensi davvero che Fidia ignorasse questo tal bello di cui parli?". Ed io: "Perché?" risponderò. "Perché, affermerà, non fece d’oro gli occhi dell’Atena, né d’oro fece il resto del volto, né i piedi, né le mani, mentre tutte queste parti, se in oro, sarebbero apparse bellissime, ma le fece d’avorio. Evidentemente Fidia peccò in questo per ignoranza, non sapendo che l’oro rende bello tutto ciò con cui si accompagna". A queste sue parole, Ippia, cosa risponderemo? IPP. Non [c] è affatto difficile: diremo che Fidia fece quel che doveva fare, ché, penso, anche l’avorio è bello. SOCR. "Per quale ragione allora, replicherà, non fece d’avorio anche il mezzo degli occhi, ma di pietra, sia pur di una pietra, per quanto gli fu possibile trovarla, molto simile all’avorio? Ma, forse, anche la pietra bella è cosa bella?". Diremo di sì, Ippia? IPP. Sì, certo, quando sia una pietra appropriata. SOCR. "Ma quando non è tale, allora è brutta?". Debbo concederglielo, o no? IPP. Di’ pure di sì, ma solo quando sia appropriata. SOCR. "Ma allora, incalzerà, l’avorio e l’oro, [d] o sapiente uomo, non faranno forse apparir belle le cose quando sono appropriati, brutte quando non lo sono?". Dovremo dargli torto, o dire di sì, che ha ragione? IPP. Gli daremo ragione nel sostenere che quello che conviene a ciascuna cosa, questo è, appunto, ciò che la rende bella. SOCR. "E allora, proseguirà, quando qualcuno metta a cuocere una bella minestra di legumi in quella bella pentola di cui or ora parlavamo, gli converrà di più adoperare un mestolo d’oro o un mestolo di fico?".
XIII. IPP. Per Ercole, che tipo d’uomo, Socrate! Non [e] vuoi dirmi chi è? SOCR. Inutile: anche se ti dicessi il nome, tanto non lo conosci! IPP. Ma già da questo so fin d’ora che è un ignorante! SOCR. E’ soprattutto un uomo che mai si accontenta, Ippia! Ad ogni modo, cosa dobbiamo rispondere? Quale dei due ramaiuoli conviene di più alla minestra e alla pentola? Evidentemente il mestolo di fico, perché darebbe un odore più grato alla minestra, mentre, ad un tempo, compagno mio, non si rischierebbe con tale mestolo di rompere la pentola, versare la minestra, spengere il fuoco, e privare i convitati di un così eccellente piatto. Il mestolo d’oro, invece, combinerebbe tutti questi guai, ed ecco perché, secondo il mio parere, deve sembrarci più conveniente il mestolo di fico che non [291a] quello d’oro, a meno che tu non abbia qualcosa in contrario. IPP. Sì, Socrate, è più conveniente il mestolo di fico, solo che personalmente non mi metterei a discutere con un uomo che pone simili domande. SOCR. Hai proprio ragione, mio caro! Certo, a te non conviene affatto infangarti con simili vocaboli, a te così ben vestito, così magnificamente calzato, così famoso per la tua sapienza, tra tutti i Greci. A me, invece, non importa nulla [b] avere contatti con lui. Seguita dunque ad essermi maestro e, per farmi un favore, rispondi. "Se, dunque, dirà il nostro uomo, il mestolo di fico è più conveniente del mestolo d’oro, non è come dire, Socrate, che il mestolo di fico è anche più bello di quello d’oro, se, come hai accettato, quello che conviene è più bello di quel che non conviene?". Dobbiamo ammettere, o no, Ippia, che il mestolo di fico è più bello del mestolo d’oro? IPP. Vuoi, Socrate, che ti dia una definizione del bello, con cui liberarti da tutte queste chiacchiere? SOCR. Eccome! Solo [c] che, prima, mi devi dire quale dei due mestoli debbo rispondere che è appropriato e più bello. IPP. Ma, se vuoi, rispondigli pure che è quello di fico. SOCR. E ora di’ quello che volevi dire. Senza dubbio, con quella tua risposta, con cui sostenevi che il bello è l’oro, non mi sembra ne potesse risultare che l’oro è più bello del legno di fico. Ma ora, appunto, come definisci il bello? IPP. Ti [d] dirò. Mi sembra che nella risposta tu vada cercando un qualcosa da potere indicare come il bello, ma un bello tale che non possa parer brutto in nessun tempo, in nessun luogo, a nessuno. SOCR. Esattamente, Ippia; ora sì che hai colto la via giusta! IPP. Ascolta! e se qualcuno avrà ancora da obbiettare qualcosa, di’ pure che non so proprio un bel nulla! SOCR. E parla, dunque, fa presto, in nome degli dèi! IPP. Affermo che sempre, per ognuno, in ogni luogo ciò che c’è di più bello per un uomo è d’essere ricco, sano, onorato dai Greci e, dopo aver raggiunto la vecchiaia e decorosamente deposto nella tomba i propri genitori defunti, essere a sua volta sepolto dai propri figli, con [e] decorosa magnificenza.
XIV. SOCR. Oh! Ippia! hai davvero parlato in modo stupendo, grandioso, degno di te! E, per Era, sono proprio lieto del benevolo aiuto che tu sembra voglia porgermi per quanto ti è possibile. Solo che non riusciremo a bloccare il nostro uomo; sappi, anzi, ch’egli ci deriderà ora più che mai. IPP. Di un cattivo riso, Socrate! poiché quando non sappia trovare nulla da obiettare al nostro discorso, ma rida, deriderà se stesso ed egli stesso sarà [292a] deriso dai presenti. SOCR. Sarà! Ma, forse, anche a una simile risposta, come mi par d’indovinare, c’è rischio che non si limiti soltanto a ridere di me. IPP. E che altro farà? SOCR. Che farà? Se per caso gli càpita tra mano un bastone, e non riesco a scappargli di sotto fuggendo, tenterà di picchiarmi per bene. IPP. Ma che dici? è forse un tuo padrone costui? E se ti bastona non sarà sottoposto a processo e condannato? Non v’è giustizia nella vostra città, tanto da lasciare che i cittadini si [b] battano tra di loro ingiustamente? SOCR. Nient’affatto! IPP. Ma allora se ti batterà ingiustamente, sarà punito. SOCR. Solo che se io, Ippia, gli rispondessi in quel modo, mi sembra che non ingiustamente, ma giustamente, mi prenderebbe a bastonate; almeno così mi pare. IPP. Alla fine, Socrate, sembra anche a me, soprattutto, poi, quando tu stesso la pensi così. SOCR. Debbo dirti, allora, perché, secondo me, quel tale mi batterebbe giustamente, se gli rispondessi in quel modo? Anche tu mi picchierai senza sottopormi a giudizio? o mi darai libertà di parola? [c] IPP. Sarebbe davvero grossa, Socrate, se non ti ascoltassi. Ma cosa vuoi dire?
XV. SOCR. Ti parlerò secondo lo stesso metodo di dianzi, imitando quel tale, sì da non usare con te quei termini ch’egli, certo, userà con me, duri e impertinenti. Senza dubbio, "Dimmi, Socrate!, egli dirà, pensi che ingiustamente ti prenderai un sacco di botte, se, dopo avermi intonato così fuori tono un tale ditirambo, non hai risposto alla mia domanda?". "Come?", dirò io. "Come?, risponderà, non riesci neppure a ricordarti che ti avevo chiesto che cosa è il bello in quanto bello, quel bello cioè che [d] a qualunque cosa si accompagni la costituisce bella, sì tratti di una pietra, di un legno, di un uomo, di un dio, di qualsivoglia azione, di qualsivoglia disciplina? Che cosa sia il bello in quanto bello, ecco, uomo, quel che ti chiedo. Ma, per quanto alzi la voce, non riesco a farmi sentire più di quanto mi farei udire se avessi accanto a me seduta una pietra, un pietrone da mola, senza orecchi e senza cervello". E se io, tutto tremante di paura, gli [e] rispondessi - non te ne avrai mica a male, Ippia? -: "Che questo sia il bello, l’ha detto Ippia. Eppure gli avevo posto la domanda, come tu l’hai posta a me: cosa per tutti, e sempre, è bello?". Che ne dici? Non te ne avrai a male, se rispondo così? IPP. Sono convinto, Socrate, che quello che ti ho detto è e sembrerà bello a tutti. SOCR. "Ma ‘sarà’ anche bello?, dirà, perché il bello è sempre bello". IPP. Certamente. SOCR. "E tale era anche in passato?", domanderà. IPP. Sì, lo era. SOCR. "Anche per Achille, aggiungerà, il forestiero di Elide disse che fu bello esser sepolto dopo i suoi progenitori, e così per [293a] suo nonno Eaco, come per chiunque sia nato dagli dèi e per gli dèi stessi?".
XVI. IPP. Ma questo, che vuol dire? Mandalo tra i beati! Socrate, le domande di quest’uomo non sono parole di buon augurio. SOCR. Come? rispondere positivamente a tali domande è un’empietà? IPP. Forse. SOCR. "Ma forse, replicherà, empio sei tu, che affermi esser bello, per tutti e sempre, venir sepolto dai figli e seppellire i genitori. Solo che uno di questi ‘tutti’ non fu anche Ercole e, gli altri di cui or ora abbiamo parlato?". IPP. Ma io non mi riferivo agli dèi. SOCR. "E neppure agli eroi, penso". [b] IPP. Né a tutti i figli degli dèi. SOCR. "Ma sì a tutti quelli che non sono figli di dèi?" IPP. Esattamente. SOCR. "Secondo te allora, seguendo il tuo discorso, per gli eroi come Tàntalo, Dàrdano, Zeto è cosa grave, empia e brutta, per Pèlope, invece, e per gli altri che hanno una nascita simile a quella di Pèlope, è cosa bella". IPP. Secondo me è così. SOCR. "E allora tu, incalzerà, ora, a differenza di poco prima, ritieni che seppellire i progenitori ed essere sepolto dai propri discendenti, talvolta e per taluni è cosa brutta: sembra anzi impossibile che sia [c] stato e sia bello per tutti, sì che un tale bello, come quelli di sopra (la fanciulla, la pentola) cade, appunto, nella stessa contraddizione e in una maniera più ridicola ancora: per alcuni è bello, per altri non bello. Neppure adesso, Socrate, seguiterà, sei, dunque, capace di rispondere alla domanda su cosa sia il bello". Giusti saranno i suoi rimproveri, se gli rispondo così.
XVII. In generale, Ippia, egli discute con me in que-[d] sto modo. Talvolta, invece, quasi preso da compassione per la mia inesperienza, per la mia incultura, mi propone egli stesso alcune questioni, chiedendomi se il bello mi sembra sia questa o quella cosa, e così fa per altri argomenti su cui per caso m’interroghi e cada il discorso. IPP. Cosa intendi dire, Socrate? SOCR. Ecco, ti spiegherò. "Infelice Socrate, dice, finiscila con codeste e simili risposte, troppo sciocche e facili a confutare, ma vedi un po’ se il [e] bello non ti sembri essere ciò che abbiamo colto appena sopra, quando, rispondendo, abbiamo detto che l’oro dove sia appropriato è bello e dove non lo sia, no; e che ciò va ripetuto per tutte le cose. Esamina, dunque, se tale appropriatezza e la sua natura, proprio questo non sia per caso il bello". Io, a volta a volta, mi associo alla sua opinione, ché non so cosa rispondere. Ma a te? sembra che il conveniente sia il bello ? IPP. Senza dubbio sì, Socrate! SOCR. Ma cerchiamo di fare un preciso esame, per non cadere in errore. IPP. Sì, dobbiamo fare un preciso esame! SOCR. Guarda, dunque: noi diciamo che il conveniente è ciò che fa apparire bello ciascun oggetto in cui [294a] si trova, o ciò che lo fa essere bello, o non è, invece, né l’uno né l’altro? IPP. Secondo me il conveniente è ciò che fa apparire belli gli oggetti. Se, per esempio, uno si mette abiti e calzari che si armonizzano, anche se ridicolo, apparirà più bello. SOCR. Ma allora, se il conveniente fa apparire gli oggetti più belli di quello che sono in realtà, esso sarebbe una specie d’inganno rispetto al bello e non quello che andiamo cercando, Ippia? Sì, perché noi andavamo cercando ciò per cui tutte le cose sono belle - come, [b] ad esempio, ciò per cui tutte le cose grandi sono grandi è quel che eccede; grazie a questo tutte le cose grandi sono grandi, e se anche non sembrano tali, ma sono realmente eccedenti, sono grandi necessariamente - ; così dobbiamo dire anche del bello, per cui tutte le cose belle sono belle, appaiano o no belle, che cosa sia? Il conveniente, no! il conveniente non può essere il bello, poiché esso fa apparire le cose più belle di quello che sono, se dobbiamo seguire il tuo ragionamento, e non le fa apparire quali sono. Ecco, invece, quel che dobbiamo sforzarci di definire: che cosa [c] sia il quid che le fa essere belle, come or ora dicevo, appaiano o non appaiano belle. Questo dobbiamo cercare, se ricerchiamo il bello. IPP. Eppure, Socrate, la presenza nelle cose del conveniente fa sì ch’esse siano ed appaiano belle. SOCR. Ma non è impossibile che le cose realmente belle sembrino belle, qualora sia in esse presente ciò che le fa apparire tali? IPP. Impossibile!
XVIII. SOCR. Ippia, dobbiamo riconoscere allora che tutte le istituzioni giuridiche e morali che siano realmente belle, sono ritenute belle e belle appaiono sempre a tutti, o, che, [d] all’opposto, sono ignorate e, più di ogni altra cosa, sono oggetto di contese e di dispute sia in privato tra i singoli, sia pubblicamente tra gli stati? IPP. Piuttosto in questo secondo modo, Socrate! sono ignorate. SOCR. Ma non lo sarebbero se in esse fosse presente l’apparire, e l’apparire vi sarebbe se il conveniente fosse il bello, e le facesse non solo essere, ma apparire belle. E allora, se il conveniente è ciò che fa essere belle le cose, il conveniente potrebbe essere quel tale bello che andiamo cercando, ma non ciò che le fa apparire belle; se il conveniente è, invece, ciò che le fa apparire, non può essere quel tale bello [e] che andiamo cercando: no, perché quello le fa essere; in realtà, invece, apparire ed essere non possono esser frutto di una medesima e sola causa, e non soltanto nei confronti del bello, ma nei confronti di qualsivoglia cosa. Dobbiamo, dunque, scegliere se riteniamo che il conveniente sia ciò che fa apparire o che fa essere belle le cose. IPP. Io ritengo, Socrate, che il conveniente sia ciò che fa apparire belle le cose. SOCR. Peccato, Ippia! di sotto le mani ci è scappata via, fuggendo, la conoscenza di quello che sia il bello, dal momento che il conveniente è risultato diverso dal bello. IPP. Sì, per Zeus, Socrate! e mi sembra dav-[295a] vero strano. SOCR. Ad ogni modo, compagno mio, non lasciamolo andare via così: ho ancora una qualche speranza che abbia a rivelarcisi in che consista ti/ pot' e)sti/n [tì pot’estìn] il bello. IPP. Ma certo, Socrate! non è mica difficile trovarlo! Sono convinto che se mi appartassi appena un po’ da solo a rifletterci sopra, tra me e me, te lo direi con più esattezza dell’esattezza stessa.
XIX. SOCR. Non dire grandezzate, Ippia! Vedi quanto da fare ci ha dato finora il bello! Anzi, temo che, seccato [b] di noi, abbia a scapparci ancora più lontano. Ma via, non sto dicendo proprio nulla! Certo, io credo che, quando ti sarai ritirato in solitudine, lo troverai facilmente. Sù, comunque! in nome degli dèi, trovalo in mia presenza, o, se vuoi, cercalo con me, come abbiamo fatto finora. Se lo troviamo, sarà una bellissima cosa; se no, mi rassegnerò, credo, alla mia sorte, mentre tu, ritirandoti in solitudine, lo troverai con facilità. Se lo troviamo ora, sta pur tranquillo che non ti seccherò più per sapere cosa sia quel che avrai trovato da solo. E adesso vedi un po’ se ti sembra che questo sia il bello: io affermo che il bello - ma guarda [c] ch’io non sragioni, mettendoci tutta la tua attenzione -, affermo che il bello, in via ipotetica sia l’utile. E sostengo riflettendo su questo: belli, noi diciamo, gli occhi, non quelli che ci sembrano tali da non poter vedere, ma gli occhi capaci di vedere e utili a questo scopo. O no? IPP. Sì. SOCR. E così diciamo bello anche il corpo, nel complesso dì tutte le sue parti, rispetto alla corsa o alla [d] lotta; e diciamo belli tutti gli altri animali - un bel cavallo, un gallo, una quaglia -, e belle tutte le suppellettili, belli tutti i mezzi di trasporto, sia per terra sia per mare, navi mercantili e triremi; e belli tutti gli strumenti che si usano in musica e nelle altre arti, e belle, se vuoi, le istituzioni e le leggi; tutte queste cose, in generale, le chiamiamo belle per la stessa ragione: tenendo sott’occhio quale sia la natura di ciascuna, come sia costituita, quale la sua disposizione locale, la sua utilità, e come sia utile, per cosa sia utile, quando sia utile, se appunto è utile la diciamo bella, [e] mentre quella che sotto tutti gli aspetti è inutile la diciamo, brutta. Non sembra anche a te, Ippia, che sia così? IPP. Sì.
XX. SOCR. E’ dunque corretto dire che soprattutto bello è l’utile? IPP. Perfettamente corretto, Socrate. SOCR. E allora, quel che ciascuna cosa ha il potere di realizzare, in ciò per cui ha un simile potere, in questo è anche utile, mentre quel che non ha potere è inutile? IPP. Esattamente. SOCR. Potere è, dunque, la cosa bella, non potere la cosa brutta? IPP. Eccome! Tutto, Socrate, prova che è così, ma la testimonianza migliore è data dalla politica. [296a] Non a caso nelle questioni politiche e nella propria città, potere è la cosa più bella di tutte, non aver potere la più brutta. SOCR. Molto bene! Per gli dèi, Ippia, ma, allora, non è forse questa la ragione per cui anche la sapienza è di tutte la cosa più bella, l’ignoranza la più brutta? IPP. Ma cosa hai in mente, Socrate? SOCR. Piano, compagno mio caro! Ho paura di quello che stiamo dicendo. IPP. [b] E di che hai paura, Socrate, se ora il tuo ragionamento fila alla perfezione? SOCR. Vorrei! Ma considera un po’ la questione insieme a me: potrebbe uno fare qualcosa se non sa o se non ha il potere? IPP. Nient’affatto! Come può fare ciò che non può? SOCR. Ma chi erra e opera male, pur agendo involontariamente, non è forse vero che non avrebbe agito così, se non avesse potuto farlo? IPP. Evidente. SOCR. E’, dunque, grazie al potere che coloro [c] che possono possono, non grazie al non potere. IPP. Evidentemente no! SOCR. Tutti possono fare quello che fanno? IPP. Sì. SOCR. Solo che tutti gli uomini, fin da bambini, fanno molto più male che bene ed errano involontariamente. IPP. Proprio così. SOCR. E allora? Questa potenza e questa utilità, che servono a realizzare il male, le dobbiamo dire belle, o tutto meno che belle? [d] IPP. Secondo me, tutt’altro che belle, Socrate! SOCR. Potere e utilità, o Ippia, non sono dunque per noi, a quanto sembra, il bello. IPP. A meno che, Socrate, esso non abbia la capacità di fare il bene e sia utile per raggiungere tale scopo.
XXI. SOCR. Ma così, che potere e utilità siano senz’altro il bello, anche questo è sfumato. Eppure, proprio questo voleva dire l’anima nostra, Ippia: il bello è l’utile e la possibilità di fare qualcosa di buono. IPP. Mi sembra. [e] SOCR. E non si tratta, forse, di un vantaggio, o no? IPP. Certamente. SOCR. Appunto: i bei corpi, le belle istituzioni legislative, la sapienza, tutto quello di cui sopra parlavamo, sono cose belle perché giovano. IPP. Evidente. SOCR. E allora, Ippia, sembra che, per noi, ciò che giova sia il bello. IPP. Senza dubbio, Socrate. SOCR. Ma ciò che giova è appunto ciò che fa del bene. IPP. Proprio così. SOCR. E ciò che permette un effetto non è altro che la causa? o no? IPP. Sì. SOCR. Il bello è, [297a] dunque, causa del bene. IPP. Proprio così! SOCR. Ma, Ippia, la causa e ciò di cui la causa è causa non sono la stessa cosa, ché la causa non può essere causa della causa. Sta attento a questo: non è risultato che la causa è l’efficiente? IPP. Certo! SOCR. E perciò dall’efficiente non si effettua altro che il prodotto, non lo stesso efficiente. IPP. Proprio così. SOCR. Altro è, dunque, il prodotto, altro l’efficiente? IPP. Sì. SOCR. La causa, perciò, non è causa di causa, ma dell’effetto da essa pro-[b] dotto. IPP. Senza dubbio. SOCR. Se allora il bello è causa di bene, il bene dovrebbe essere prodotto dal bello; ecco, sembra, la ragione per cui con tanta cura ricerchiamo l’intelligenza e tutte le altre cose belle, perché, appunto, l’opera loro, il loro effetto, cioè il bene, è cosa degna di ogni premura, e, per quel che ci risulta, finisce che il bello, relativamente al bene, in un certo qual modo si configura come padre del bene. IPP. Perfettamente, bel ragionamento, Socrate! SOCR. E altrettanto bene ragiono, af-[c] fermando che né il padre è figlio, né il figlio padre? IPP. Molto bene! SOCR. Né la causa effetto, né l’effetto causa? IPP. Vero! SOCR. Per Zeus, ottimo amico mio, ma allora né il bello è bene, né il bene bello! o ti sembra possibile, dopo quello che abbiamo sostenuto? IPP. No, per Zeus! non mi pare. SOCR. Ma ci fa piacere e desidereremmo poter dire che il bello non è bene o che il bene non è bello? IPP. No, per Zeus! a me non fa per niente piacere. SOCR. Eh sì! per Zeus, Ippia! personalmente, poi, questo, di tutto quello che siamo venuti dicendo, è [d] ciò che meno mi piace. IPP. Naturale!
XXII. SOCR. Ma allora, il ragionamento di prima, che ci appariva come il migliore di tutti, che cioè il bello fosse quel che giova, l’utile, la possibilità stessa di fare qualcosa di buono, rischia di non essere affatto vero, ma d’essere, se possibile, più ridicolo ancora delle nostre prime definizioni, secondo cui ritenevamo che il bello fosse una fanciulla e ognuno degli altri oggetti dei quali abbiamo parlato. IPP. Sembrerebbe. SOCR. A questo punto, Ippia, non so più da che parte voltarmi e non ho più via d’uscita. Ma tu, hai qualcosa da dirmi? IPP. Così a [e] colpo no! ma, come dicevo, riflettendoci sopra, sono convinto che troverò. SOCR. Solo che io, smanioso di sapere, credo proprio che non sarò capace di stare qui ad aspettarti. E, poi, mi sembra di avere proprio adesso intraveduto qualcosa. Vedi un po’: se affermassimo che quel che ci diletta non è che siano tutti i piaceri, ma ciò che percepiamo mediante l’udito e la vista, e che questo è il [298a] bello, come potremmo sostenere una tesi del genere? Così, ad esempio, Ippia, le belle persone, i ricami, le pitture, le sculture, quando siano belli, ci dilettano gli occhi. E i bei suoni, ogni tipo di musica, i discorsi, i racconti favolosi, hanno lo stesso effetto. Se così rispondessimo a quel terribile uomo: nobile amico, il bello consiste in ciò che mediante l’udito e la vista è piacevole; non credi che riusciremmo a frenare la sua audacia? IPP. Sì, Socrate, questa, almeno adesso, mi sembra una buona definizione [b] del bello. SOCR. Ma come? dovremo, dunque, dire, Ippia, che anche le belle istituzioni e le leggi sono belle, per il fatto che ci dilettano attraverso l’udito o la vista? O sono bellezze d’altra specie? IPP. Ma, forse, questo, Socrate, può sfuggire al nostro uomo. SOCR. Ma, per il cane, Ippia, non a colui dinanzi al quale soprattutto mi vergognerei di spacciare panzane e fingere di dire qualcosa senza dire nulla. IPP. E chi è? SOCR. Il figlio di Sofronisco, che non mi permetterebbe di parlare alla [c] leggera di cose ancora non studiate, o di parlare come se sapessi quello che non so. IPP. Certo, dopo quello che hai detto, anche a me sembra che per le leggi la cosa sia diversa.
XXIII. SOCR. Calma, Ippia! perché, forse, ricaduti nella stessa aporia di prima relativamente al bello, abbiamo una qualche speranza di avere ancora una via di salvezza. IPP. Come, Socrate? SOCR. Ti dirò quello che ora mi si sta rivelando, per vedere se è da tenerne conto. In realtà, [d] quel che si riferisce alle leggi e alle istituzioni potrebbe non sembrare estraneo al senso dell’udito e della vista. Ma teniamoci fermi al nostro discorso: bello è quel che ci diletta attraverso quei due sensi, e non tiriamo in mezzo le leggi. D’altra parte, se quel tale, o qualsiasi altra persona, ci chiedesse: "Ma perché, o Ippia, o Socrate, distaccate dal piacevole ciò che fa piacere attraverso questi due sensi, e lo chiamate bello, mentre ciò che si riferisce alle altre sensazioni - a quelle del mangiare, del bere, del [e] sesso, e così via - non dite essere bello? o negate che siano sensazioni piacevoli e che in simili sensazioni, in nessuna sensazione v’è piacere, se non nel vedere e nell’udire?", cosa diremo, Ippia? IPP. Diremo senz’altro, Socrate, che anche nelle altre sensazioni vi sono piaceri grandissimi. SOCR. "Ma perché, dirà lui, se sono piaceri [299a] non meno degli altri, togliete loro tal nome e li private della bellezza?". Perché, risponderemo, non ci sarebbe nessuno che non si farebbe le matte risate di noi, se sostenessimo che il mangiare non è piacevole ma bello, che fiutare un buon odore non è piacevole ma bello; quanto poi ai piaceri sessuali tutti sosterrebbero, armi alla mano, che non v’è nulla di più piacevole, ma che, quando si praticano, dobbiamo fare in modo che nessuno veda, perché a vedersi sono i più indecenti. Se dicessimo queste cose, Ippia, egli forse osserverebbe: "Capisco anch’io che già da un pezzo vi vergognate di chiamare belli questi piaceri, [b] andando contro l’opinione della gente, solo che io non vi chiedevo questo, quel che sembri bello alla maggioranza ma che cosa è il bello". E noi, credo, secondo la nostra ipotesi, diremo ancora: "Sosteniamo che il bello è quella parte del piacevole che ci proviene dalla vista e dall’udito". Hai da dire ancora qualcosa, Ippia, o dovremo dare altra risposta? IPP. Alla sua questione, Socrate, è giocoforza non rispondere altrimenti.
XXIV. SOCR. "Giuste parole, le vostre!, esclamerà. Ma allora, se bello è solamente il piacere che ci proviene attraverso la vista e l’udito, il piacere che non ci viene da [c] tali sensi non è, dunque, bello? "Dobbiamo convenirne? IPP. Sì. SOCR. "Ma, insisterà, quel che è piacevole mediante la vista e l’udito, o quel che è piacevole mediante l’udito è tale mediante l’udito e la vista?". Assolutamente no, risponderemo. Quel che è piacevole mediante l’uno dei due sensi, può non esserlo per mezzo di ambedue - questo sembra che tu voglia dire -: in realtà noi abbiamo sostenuto che l’uno e l’altro di questi piaceri presi a sé sono belli, si come belli sono ambedue. Non è così che dobbiamo rispondere? IPP. Senza dub-[d] bio! SOCR. "Ma, incalzerà lui, un qualsivoglia piacere, in quanto piacere, è forse diverso da un altro qualsivoglia piacere? E non dico se è maggiore o minore, più o meno intenso, ma se è diverso appunto in questo, che tra i piaceri l’un piacere è piacere e l’altro no!". Non ci sembra, no? IPP. No! a noi non sembra. SOCR. "Ma allora, dirà, avete prescelto questi, tra tutti gli altri piaceri, per altra ragione, non per il fatto che siano piaceri, [e] ma perché vedete in ambedue un qualcosa che li fa diversi dagli altri, e tenendo d’occhio quello li chiamate belli? Senza dubbio il piacere che proviene dalla vista non è bello perché proviene dalla vista: se questa fosse la causa del suo essere bello, non potrebbe essere bello l’altro, il piacere che proviene dall’udito. Non è, dunque, un piacere in quanto proviene dalla vista". E’ vero, dovremo dire noi. [300a] IPP. Sì. SOCR. "D’altra parte, neppure il piacere che viene dall’udito è bello in quanto viene dall’udito; si, perché allora non potrebbe essere bello il piacere che proviene dalla vista. Non è dunque un piacere in quanto proviene dall’udito". Dovremo dire, Ippia, che il nostro uomo è nel vero. IPP. Vero! SOCR. "Eppure, come voi affermate, sono ambedue belli". Lo diciamo, no? IPP. Lo diciamo! SOCR. "Essi, dunque, posseggono un medesimo [b] quid che li fa essere belli, un quid comune inerente ad ambedue e a ciascuno particolarmente: non potrebbero, se no, essere, ad un tempo, belli ambedue e ciascuno singolarmente". Rispondi a me come risponderesti a quel tale. IPP. La mia risposta è che secondo me le cose stanno come tu dici. SOCR. E allora, se ambedue questi piaceri posseggono un quid che, poi, manca a ciascuno singolarmente, non è per tale quid che possono esser belli. IPP. Ma, Socrate, com’è possibile che un quid che non appartiene né all’una né all’altra di due cose prese singolarmente, appartenga invece ad entrambe nel loro insieme? SOCR. [c] Non ti sembra? IPP. Dovrei essere assolutamente inesperto della natura di tali questioni e dei discorsi che stiamo facendo.
XXV. SOCR. Come parli bene, Ippia! Ma va a finire ch’io m’illudo di vedere qualcosa di quello che tu dici impossibile, anche se di fatto non vedo nulla. IPP. No, Socrate! non "va a finire", ma è davvero un’illusione la tua! SOCR. Eppure mi si prospettano molti esempi del genere, ma ne diffido dal momento che non si rivelano a te, a un uomo che grazie al suo sapere ha fatto più quat-[d] trini di ogni altro nostro contemporaneo, mentre vengono in mente a me, che non ho mai guadagnato nulla. Tuttavia, compagno, mi viene il sospetto che tu stia scherzando con me e che, di proposito, tu mi stia ingannando, tanti e così evidenti sono gli esempi che mi si affollano alla mente. IPP. Nessuno, Socrate, saprà meglio di te, se io scherzi oppure no, quando avrai cercato di espormi quei tuoi esempi: apparirà chiaro che, in realtà, non dici un bel nulla! Non troverai mai che il "qualcosa" che singolarmente né io né tu possediamo, lo si abbia, invece, ambedue presi insieme. SOCR. Cosa intendi dire, Ippia? [e] Forse qualcosa vuoi dire, e sono io a non capire. Ma ora stammi a sentire, ché cercherò di spiegarti più chiaramente quale sia il mio pensiero. A me sembra che una qualità, che pur non abbiamo avuto e non abbiamo, né io né tu, possa sussistere in ambedue, mentre altre che pur sussistono in ambedue, possano non essere in ciascuno dei due singolarmente. IPP. Socrate, ancor più stupefacenti delle tue risposte di poco fa, sono le tue attuali affermazioni. Vedi un po’: se tutti e due siamo giusti, non lo sarà anche ciascuno di noi? o se ciascuno di noi è ingiusto, non lo saremo anche tutti e due? o se siamo sani, [301a] non lo sarà anche ciascuno di noi? E se ciascuno di noi fosse infermo, o ferito, o percosso, o sofferente per qualsivoglia altra affezione, non saremmo sofferenti anche tutti e due? Ancora: se ambedue fossimo o d’oro, o di argento, o di avorio, o, se ti piace di più, nobili, o sapienti, onorati, vecchi, giovani, o in altra qualsivoglia condizione umana, non dovremmo essere necessariamente tali anche singolarmente? SOCR. Senza dubbio! IPP. Vedi, So-[b] crate, tu non consideri i fatti nel loro complesso, né tu né quelli con i quali sei solito discutere. Voi battete sul bello, ritagliandolo da tutto l’insieme e spezzettando ciascuna cosa nei vostri discorsi, sì che vi sfugge che grande e continua è la realtà naturale. Ed ora, tanto è rimasto occulto al tuo sguardo, da credere che vi sia un qualcosa, accidentale o essenziale, che si trovi in due cose insieme [c] e non in ciascuna d’esse singolarmente, oppure che si trovi in ciascuna e non in entrambe, tanto siete illogici, irriflessivi, grossolani, non capaci di un discorso articolato.
XXVI. SOCR. Tale è la nostra condizione, Ippia: non come si vorrebbe - si è soliti dire secondo il proverbio -, ma come si può. E meno male che tu ci sei di grande aiuto con le tue continue sollecitazioni. E ora, ancor più ti dimostrerò quanto eravamo ingenui, prima che tu ci mettessi sull’avviso, dicendoti quale sulla questione fosse il nostro pensiero; o debbo tacere? IPP. Socrate, parlerai [d] a chi già sa! Conosco bene come si ritrova chi si occupa di discorsi. Comunque, se lo preferisci, parla pure! SOCR. Lo preferisco sì! Ottimo amico mio, eravamo così stolti, prima che tu dicessi quello che hai detto, da credere che, tu ed io, ciascuno di noi fosse uno, mentre insieme non saremmo più quello che eravamo singolarmente, poiché non siamo uno ma due: tanto ingenui eravamo! Ora, in-[e] vece, tu ci hai insegnato che, se insieme siamo due, siamo per forza due anche singolarmente, e che se singolarmente siamo uno, dobbiamo per forza essere uno anche tutti e due insieme. Secondo Ippia, infatti, nell’ordine naturale delle cose, è impossibile che sia altrimenti: due cose prese insieme sono tali anche singolarmente, come ciascuna non può non essere che tutte e due insieme. Persuaso da te, io ora me ne sto tranquillo. Solo che prima rammentami un po’ questo, Ippia: tu ed io siamo una sola persona, o ciascuno di noi è due? IPP. Cosa intendi dire, Socrate? SOCR. Quello che ho detto! Sì, ho paura di parlare chiaro, perché, quando credi di aver detto chissà [302a] cosa, ti arrabbi con me. Ad ogni modo, dimmi ancora: ciascuno di noi due è uno, e gli accade di essere uno? IPP. Certo! SOCR. Ma allora, se è uno, ciascuno di noi è anche dispari. Non credi che l’uno sia dispari? IPP. Sì. SOCR. Ma essendo due, siamo dispari anche noi due insieme? IPP. Impossibile, Socrate! SOCR. Tutti e due insieme, allora, siamo pari, o no? IPP. Esatto! SOCR. Ma allora, se noi due insieme siamo pari, pari è anche ciascuno [b] di noi singolarmente? IPP. Evidentemente no! SOCR. Non è, dunque, affatto necessario, come pur sostenevi poco fa, che in due si debba essere quello che siamo da soli, e che si debba essere singolarmente quello che siamo in due. IPP. In questo caso, no! Ma sì nei casi cui sopra accennavo.
XXVII. SOCR. Basta così, Ippia! Accontentiamoci anche di questo, dal momento che alcune cose appaiono tali, altre diverse. Io, se ti ricordi da dove ha preso le mosse il nostro discorso, sostenevo che i piaceri della vista e [c] dell’udito non sono belli per un qualcosa che ciascuno ha singolarmente e non insieme, o per un qualcosa che è in entrambi e manca in ciascuno singolarmente, ma per ciò che posseggono ad un tempo entrambi e ciascuno, poiché tu hai ammesso che sono belli tutti e due insieme e ciascuno singolarmente. Ecco perché io pensavo che, se sono belli tutti e due insieme, dovessero esser belli per un che di essenziale che l’uno e l’altro posseggano in comune, non per ciò che all’uno e all’altro venga meno. E tale è ancora il mio pensiero. Ma sù, come da principio, dimmi: quel che rende bello il piacere della vista e il piacere dell’udito, se è vero che sono belli tutti e due e ciascuno sin-[d] golarmente, questo non deve essere un quid che sussiste e in entrambi e in ciascuno singolarmente? IPP. Senza dubbio! SOCR. E sono belli, entrambi e ciascuno singolarmente, perché sono piaceri, o, appunto per questo, sarebbero belli non meno di essi tutti gli altri piaceri? Sì, perché, se simili , risultò che questi non sono meno piaceri di quelli. IPP. Me ne ricordo. SOCR. Ma dicevamo che sono belli perché provengono dalla vista e dal-[e] l’udito. IPP. Sì, così dicevamo! SOCR. Vedi un po’ ora se dico il vero. Se ben ricordo, sostenevamo che bello è il piacevole: non tutto, ma quello che ci proviene dalla vista e dall’udito. IPP. Vero! SOCR. E tale accidente appartiene ad ambedue presi insieme, non a ciascuno singolarmente: come dicevamo sopra, ciascuno di essi non è prodotto da entrambi i sensi, ma entrambi dalle due sensazioni, e non ciascuno da ambedue. Non è così? IPP. Certo! SOCR. Ciascuno di questi piaceri non è dunque bello per un quid che non appartiene a ciascuno singolarmente - la proprietà d’essere l’uno e l’altro ad un tempo non appartiene a ciascuno - , per cui, secondo la nostra ipotesi, nulla vieta che si possano chiamare [303a] belli entrambi, ma non ciascuno dei due. Cosa mai altro dobbiamo dire? La conclusione è necessaria. IPP. Sembra.
XXVIII. SOCR. Dobbiamo dunque dire che l’uno e l’altro piacere insieme sono belli, mentre se presi separatamente non lo sono? IPP. E chi lo vieta? SOCR. Amico mio, lo vieta questo, mi sembra: che, come abbiamo visto, vi sono certe proprietà - tutte quelle elencate da te, che, se sono comuni a tutti e due gli oggetti, sono anche proprie di ciascuno, e se lo sono di ciascuno, debbono esser comuni ad entrambi. O no? IPP. Sì. SOCR. Quelle elencate da me, no, invece! e, tra queste, è la diversità tra l’unità e la coppia. Non è vero? IPP. Sì. SOCR. [b] Ebbene, Ippia, a quale dei due gruppi ti sembra che appartenga il bello? Forse al gruppo di cui tu parlavi: se io e tu siamo forti, lo siamo anche entrambi, e se io e tu siamo giusti, lo siamo anche entrambi, e se lo siamo entrambi, giusto è anche ciascuno di noi singolarmente; e ancora, se io e tu siamo belli, lo siamo anche entrambi, e se lo siamo entrambi, bello è anche ciascuno di noi singolarmente? Oppure nulla vieta che due cose, le quali insieme sono pari, se prese a sé, siano ciascuna ora dispari e ora pari, e che due cose, ciascuna indefinibile se presa a sé, prese insieme formino un tutto ora definibile ora indefinibile, e [c] così via in mille altri casi simili che, dicevo, mi venivano alla mente? In quale di questi due gruppi poni il bello? Pare anche a te che la questione stia come la vedo io? Secondo me, almeno, sembra davvero senza ragione che se noi due siamo belli, non lo sia ciascuno singolarmente, o che se ciascuno di noi è bello, belli non si debba essere tutti e due, e così via per altri casi del genere. Sei d’accordo con me, o altro è il tuo modo di vedere? IPP. La penso come te. SOCR. E fai bene, Ippia! così siamo dispensati da ogni altra ricerca: perché se il bello appar-[d] tiene a questo gruppo, è impossibile che il bello consista nel piacere che proviene dalla vista e dall’udito, poiché il provenire dalla vista e dall’udito rende belli questi piaceri insieme, non ciascuno singolarmente. Questo, come tu ed io riconoscevamo, sarebbe impossibile, Ippia. IPP. Sì, lo riconoscevamo! SOCR. D’altra parte, che il piacere, proveniente dalla vista e dall’udito, sia il bello è impossibile: se così fosse giungeremmo ad una conclusione assurda. IPP. Proprio così.
XXIX. SOCR. "Da capo, allora, dirà quel tale, dal mo-[e] mento che avete preso una via errata. Cosa è mai, secondo voi, questo bello, presente in ambedue questi piaceri per cui apprezzandoli più degli altri piaceri, li avete chiamati belli?". A me sembra, Ippia, che sia necessario rispondergli: perché i più innocui e i migliori di tutti i piaceri, tanto presi insieme quanto presi ciascuno a sé. Cos’altro mai puoi dire che li differenzi dai restanti piaceri ? IPP. Nulla ho da dire, ché, in realtà, sono i migliori. SOCR. "Voi dite, insomma, aggiungerà, che il bello è un piacere che giova?". Sembra di sì, risponderò io; e tu? IPP. Anche io! SOCR. "Ma utile, replicherà, non è forse ciò che produce il bene, e ciò che produce e ciò che è prodotto non ci sono apparsi essere due cose diverse? Non ricadiamo così nello stesso ragionamento di prima? E’ impossibile che il bene sia il bello, come il bello [304a] bene, se l’uno e l’altro sono diversi tra di loro". Eh sì! dovremo rispondere, Ippia, se siamo gente di senso: è impossibile non essere d’accordo con chi ragiona correttamente! IPP. Ma insomma, Socrate, cosa credi che sia tutta codesta roba? Raschiature, ritagli, frantumi di ragionamenti sono, come sopra dicevo! No! Quel che è bello e di gran valore è riuscire a pronunziare un buono e bel discorso in tribunale, in Consiglio, dinanzi a qualsiasi altra autorità cui si debba parlare e, riusciti a persuadere, venir [b] via, riportando non un premio da niente, ma il sommo premio: la salvezza di se stesso, dei propri beni, degli amici. A questo bisogna dedicarsi e lasciar stare codeste tue sottigliezze, se non vuoi passare per un folle occupandoti, come ora, di ciance e di quisquilia.
XXX. SOCR. Caro Ippia, beato te che sai quali sono le occupazioni degne di un uomo e, come dici, le pratichi alla perfezione! Io, invece, vittima, a quel che sembra, di non so quale demonico destino, oscillo sempre in un per-[c] petuo dubbio, e quando espongo i miei dubbi a voi sapienti, sono da voi coperto d’insulti, non appena vi ho fatto la mia confessione, perché dite, come anche tu ora, che mi occupo di sciocchezze, di inezie, di cose senza valore alcuno. E quando, persuaso da voi, ripeto con voi che meglio è saper comporre un ben fatto e bel discorso [d] da pronunziare in tribunale o in altra qualsivoglia adunanza, allora mi sento violentemente ingiuriato da altri miei concittadini e, soprattutto, da quell’uomo che sembra lì pronto a confutarmi". Egli per l’appunto, è un mio stretto parente e abita con me, e ogni volta che torno a casa e mi ascolta ripetere queste cose, mi chiede se non mi vergogno di avere io l’ardire di parlare sulle belle occupazioni, proprio io che così chiaramente offro prova di non sapere in che consista il bello. "Ebbene, mi dice, come puoi giudicare se un discorso è fatto bene o male, se buona [e] o cattiva è una certa azione, se ignori in che consiste il bello? E poiché ti trovi in tale condizione, piuttosto che vivere non credi che per te sarebbe meglio essere già morto?". Mi accade così, come dicevo, d’essere rimproverato e insultato da voi e da lui. Ma, forse, è fatale ch’io debba sopportare tutto questo: non sarebbe fuori luogo se ne traessi giovamento. Sì, caro Ippia, credo d’avere già ricavato un certo utile dalla conversazione di entrambi, da te e da quel tale: ritengo proprio di avere compreso il significato del proverbio: "difficili sono le cose belle"!